In fin dei conti sei un eroe solitario. Un errante che cerca sé stesso.
L’anabasi nel proprio intimo è un viaggio assai periglioso. Si attraversano antri irti di pericoli ed ogni svolta può celare qualche affamata fiera pronta all’assalto. Quei binari che scorrono paralleli, di cui, appellandoti a Mnemosine, intuisci il punto di partenza ma non intravedi quello di arrivo, l’approdo sognato, sperato, bramato, sono la labile traccia del tragitto che emerge fiocamente dalla tua memoria e dalla tua speranza, ed il tuo sentimento, le tue emozioni, le tue paure devono percorrerla per intero prima che l’anima ed il corpo si riversino, spegnendosi, nel grande mare magnum indifferenziato del Kaos calmo ove non vi è più dolore, neppure gioia; ove tutto si spegne, anche la sete e la fame. Quello è il percorso. Non è dato sapere quanto sia lungo. Per grazia del Fato maligno o di un Dio che ama nascondersi e nascondere, non è neppure dato conoscere in anticipo di quale tipo, sapore, profumo, consistenza siano i suoi costituenti. Se avrai accesso in un campo rigoglioso, lussureggiante, impastato col riso ed il frumento, fra aiuole fiorite, dove s’ode l’eco del riso, oppure se il tuo incerto passo sarà condotto a calpestar deserti, fra sterpi bruciati dal sole e avvizziti dal ghiaccio, fra turbini e gelo.
Siam come falene, ed ignoriamo la ragione per cui corriamo incontro alla luce, ove, frammisto ad effimere gioie, il dolore dilaga ed il male disputa al bene l’imperio del mondo. Noi, come feluche, attraversiamo l’Oceano dell’esistere senza avere una bussola che ci guidi e le stelle ci negano soccorso. Siamo scaraventati su questo palcoscenico chiamato vita senza che fossimo premuniti di libretto di istruzioni. Anche quegli occhi color smeraldo che accendono i tuoi sogni e che per un attimo donano refrigerio e ristoro, Santander, sono parte anch’essi dell’inganno. Assolvono il fine ultimo di perpetuare l’esistenza del cibo supremo necessario al perpetuarsi della Suprema, perché la Vita, mio caro, è solo pasto della Morte.
Rifuggiamo il buio da dove proveniamo e temiamo quello entro cui sfoceremo, senza aver mai riflettuto pienamente che quel buio non conosce le doglie del parto, non echeggiano i lamenti di madri privati dei figli, son sconosciuti fatica, affanno, ansia ed inquietudine. Ci riversiamo come fiume in mare verso la luce dell’inganno, fra le braccia dell’angoscia, sebbene da essa vorremmo essere affrancati.
Siamo un’antinomia, perciò siamo eroi. Perché l’eroe, pur presagendo il pericolo ed avvertendo la paura, prosegue il suo cammino, sospinto dal destino, da una forza occulta, nutrita di speranza, sogni ed immaginazione, tutto ciò che impregna questa tragedia chiamata Vita. Scrutiamo con trepidazione quel cerchio di luce lontana, che insinua una tenue lamina fluorescente nell’imbocco del cunicolo, fin dentro i reconditi ospizi della nostra parvula Anima. Corriamo affannati, abbracciamo la luce, diam respiro alla speranza e troppo spesso siamo introdotti alla visione di poveri, miseri, secchi e avvizziti
…Paesaggi disperati:
Acre è il sapore di raspi di vite stretti fra i denti. Spogli oramai dei succosi rubizzi acini da cui festoso un dì spillava gioioso il nettare che inebria la mente. Raspi avvizziti che negan l’oblio, unico farmaco che potesse lenire l’ansia e l’angoscia di essere qua.
Con scarnificate dita di morte, i rami ritorti d’alberi morti colgono la grassa bruna terra che, mentre l’osservi, s’immiserisce in arida sabbia. Ove non radica frondoso l’albero, ma solo l’arbusto e lo sterpo di uno spoglio paesaggio riarso dal sole cocente; percosso da venti impetuosi, che recano seco né vita né spore da cui gorgogli altra vita e speranza.
Uno sguardo sperduto a vagare su piatte radure sempre uguali a sé stesse, che hanno oramai perso il ricordo del trillo festoso del grillo, del canto allettante della capinera. Terreno di coltura d’un verminaio di sensazioni di morte. Occhi stanchi e rugosi, sperduti a guardare lontano, oltre quel limine rosso che è cornice al patire di tutti, che oblia lo sfuggente passo danzante della lepre. Occhi per sempre dimentichi della corsa gioiosa di esseri scordati da Dio.
Colà è il deserto che impera; il freddo che brucia le foglie dell’ultima flora ed avvizzisce le pelli di esseri sparsi per caso e ignorati per sempre.
Uomo, sospeso un attimo solo a vagare nel nulla, nel buio del tempo, errante, senza meta e riparo, fra le desolate lande dell’Anima. Che ruba un sorriso a quei miseri sassi ove poggia i suoi piedi. Soldato di una guerra mai combattuta e persa per sempre; alfiere di sogni che son uggia divina.
Nel Silenzio di Dio, più sali le scale, più vedi lontano quell’orlo di luce che sovrasta ogni cosa; più la corsa è affannata, più la distanza si accentua. E’ tanta la strada percorsa che tanta ne rimane da compiere. Qual strano insensato tragitto privo di meta ha previsto per noi l’invitta Matrigna: fra sassi e polveri scure, intrise di sangue…
Paesaggi privi di pace si parano dinanzi ad occhi infossati e sfiniti, a piedi piagati, ad anime stanche che emettono un urlo.
Vagare nel nulla, null’altro ci resta, nel Silenzio di Dio. Rubare fiacche parole a genti più fiacche e sfinite di noi, per udire o sognare un suono gentile che non sia un rantolo o un crampo di stomaci vuoti. Le mani protese nel vuoto a stringere aria pesante, ove è assente il Logos di Dio, ove greve è il lamento dell’uomo, che intona inutili canti d’amore e solenni preghiere mai udite da altri che non fossero uomini mesti, che, chini, camminano stanchi nel cupo obbrobrioso Silenzio di Dio, la cui unica eco è il greve tonfo dei passi che percorrono vie inscritte in un sogno… quell’inutile sogno di essere eterni, la cui vana certezza che si compia, alfine, quella vile promessa, nata una notte di sogno che danna da sempre, che estorce e giustifica pianti, lamenti, vagiti, gemiti di chi tanto ha sperato, già sterile si sfalda d’un fiato al torrido fuoco di un sole sempre più nero, tramutandosi in cupo lamento, che è la fine della nostra inutile unica vita.
Eh sì, caro Santander.
In fin dei conti sei un eroe solitario. Un errante che cerca sé stesso.
L’anabasi nel proprio intimo è un viaggio assai periglioso. Si attraversano antri irti di pericoli ed ogni svolta può celare qualche affamata fiera pronta all’assalto. Quei binari che scorrono paralleli, di cui, appellandoti a Mnemosine, intuisci il punto di partenza ma non intravedi quello di arrivo, l’approdo sognato, sperato, bramato, sono la labile traccia del tragitto che emerge fiocamente dalla tua memoria e dalla tua speranza, ed il tuo sentimento, le tue emozioni, le tue paure devono percorrerla per intero prima che l’anima ed il corpo si riversino, spegnendosi, nel grande mare magnum indifferenziato del Kaos calmo ove non vi è più dolore, neppure gioia; ove tutto si spegne, anche la sete e la fame. Quello è il percorso. Non è dato sapere quanto sia lungo. Per grazia del Fato maligno o di un Dio che ama nascondersi e nascondere, non è neppure dato conoscere in anticipo di quale tipo, sapore, profumo, consistenza siano i suoi costituenti. Se avrai accesso in un campo rigoglioso, lussureggiante, impastato col riso ed il frumento, fra aiuole fiorite, dove s’ode l’eco del riso, oppure se il tuo incerto passo sarà condotto a calpestar deserti, fra sterpi bruciati dal sole e avvizziti dal ghiaccio, fra turbini e gelo.
Siam come falene, ed ignoriamo la ragione per cui corriamo incontro alla luce, ove, frammisto ad effimere gioie, il dolore dilaga ed il male disputa al bene l’imperio del mondo. Noi, come feluche, attraversiamo l’Oceano dell’esistere senza avere una bussola che ci guidi e le stelle ci negano soccorso. Siamo scaraventati su questo palcoscenico chiamato vita senza che fossimo premuniti di libretto di istruzioni. Anche quegli occhi color smeraldo che accendono i tuoi sogni e che per un attimo donano refrigerio e ristoro, Santander, sono parte anch’essi dell’inganno. Assolvono il fine ultimo di perpetuare l’esistenza del cibo supremo necessario al perpetuarsi della Suprema, perché la Vita, mio caro, è solo pasto della Morte.
Rifuggiamo il buio da dove proveniamo e temiamo quello entro cui sfoceremo, senza aver mai riflettuto pienamente che quel buio non conosce le doglie del parto, non echeggiano i lamenti di madri privati dei figli, son sconosciuti fatica, affanno, ansia ed inquietudine. Ci riversiamo come fiume in mare verso la luce dell’inganno, fra le braccia dell’angoscia, sebbene da essa vorremmo essere affrancati.
Siamo un’antinomia, perciò siamo eroi. Perché l’eroe, pur presagendo il pericolo ed avvertendo la paura, prosegue il suo cammino, sospinto dal destino, da una forza occulta, nutrita di speranza, sogni ed immaginazione, tutto ciò che impregna questa tragedia chiamata Vita. Scrutiamo con trepidazione quel cerchio di luce lontana, che insinua una tenue lamina fluorescente nell’imbocco del cunicolo, fin dentro i reconditi ospizi della nostra parvula Anima. Corriamo affannati, abbracciamo la luce, diam respiro alla speranza e troppo spesso siamo introdotti alla visione di poveri, miseri, secchi e avvizziti
…Paesaggi disperati:
Acre è il sapore di raspi di vite stretti fra i denti. Spogli oramai dei succosi rubizzi acini da cui festoso un dì spillava gioioso il nettare che inebria la mente. Raspi avvizziti che negan l’oblio, unico farmaco che potesse lenire l’ansia e l’angoscia di essere qua.
Con scarnificate dita di morte, i rami ritorti d’alberi morti colgono la grassa bruna terra che, mentre l’osservi, s’immiserisce in arida sabbia. Ove non radica frondoso l’albero, ma solo l’arbusto e lo sterpo di uno spoglio paesaggio riarso dal sole cocente; percosso da venti impetuosi, che recano seco né vita né spore da cui gorgogli altra vita e speranza.
Uno sguardo sperduto a vagare su piatte radure sempre uguali a sé stesse, che hanno oramai perso il ricordo del trillo festoso del grillo, del canto allettante della capinera. Terreno di coltura d’un verminaio di sensazioni di morte. Occhi stanchi e rugosi, sperduti a guardare lontano, oltre quel limine rosso che è cornice al patire di tutti, che oblia lo sfuggente passo danzante della lepre. Occhi per sempre dimentichi della corsa gioiosa di esseri scordati da Dio.
Colà è il deserto che impera; il freddo che brucia le foglie dell’ultima flora ed avvizzisce le pelli di esseri sparsi per caso e ignorati per sempre.
Uomo, sospeso un attimo solo a vagare nel nulla, nel buio del tempo, errante, senza meta e riparo, fra le desolate lande dell’Anima. Che ruba un sorriso a quei miseri sassi ove poggia i suoi piedi. Soldato di una guerra mai combattuta e persa per sempre; alfiere di sogni che son uggia divina.
Nel Silenzio di Dio, più sali le scale, più vedi lontano quell’orlo di luce che sovrasta ogni cosa; più la corsa è affannata, più la distanza si accentua. E’ tanta la strada percorsa che tanta ne rimane da compiere. Qual strano insensato tragitto privo di meta ha previsto per noi l’invitta Matrigna: fra sassi e polveri scure, intrise di sangue…
Paesaggi privi di pace si parano dinanzi ad occhi infossati e sfiniti, a piedi piagati, ad anime stanche che emettono un urlo.
Vagare nel nulla, null’altro ci resta, nel Silenzio di Dio. Rubare fiacche parole a genti più fiacche e sfinite di noi, per udire o sognare un suono gentile che non sia un rantolo o un crampo di stomaci vuoti. Le mani protese nel vuoto a stringere aria pesante, ove è assente il Logos di Dio, ove greve è il lamento dell’uomo, che intona inutili canti d’amore e solenni preghiere mai udite da altri che non fossero uomini mesti, che, chini, camminano stanchi nel cupo obbrobrioso Silenzio di Dio, la cui unica eco è il greve tonfo dei passi che percorrono vie inscritte in un sogno… quell’inutile sogno di essere eterni, la cui vana certezza che si compia, alfine, quella vile promessa, nata una notte di sogno che danna da sempre, che estorce e giustifica pianti, lamenti, vagiti, gemiti di chi tanto ha sperato, già sterile si sfalda d’un fiato al torrido fuoco di un sole sempre più nero, tramutandosi in cupo lamento, che è la fine della nostra inutile unica vita.
Il resto te lo racconterò un altro giorno.
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